Con microbiota intestinale si intende tutto l’insieme dei microbi che vivono nel nostro intestino. Al suo interno ci sono decine di migliaia di milioni di microorganismi di almeno 1000 specie diverse. Nella maggior parte delle persone un terzo del microbiota è simile, mentre per 2/3 è diverso per ognuno di noi e per questo fa parte della nostra individualità.
Il microbiota non esiste nella vita intrauterina. Viene acquisito nel momento del parto, quando si è esposti a specie batteriche presenti nella flora vaginale e gastrointestinale della madre. In seguito si incrementa in quantità e varietà tramite l’esposizione all’ambiente e con l’alimentazione.
La maggior parte di questi microorganismi non sono dannosi per la salute, anzi, sono benefici perché sono parte di numerosi processi fisiologici. Per questo ad oggi sono svariati i paesi che stanno investendo sugli studi per comprendere il rapporto tra questi microbi, la salute e le malattie.
Il microbiota intestinale è un “organo acquisito” (visto che non è innato) ancora molto sconosciuto. Quello che è certo ormai per gli studiosi, è che il microbiota è direttamente relazionato con la nostra salute, con il nostro sistema immunitario, con il nostro funzionamento dell’apparato digerente, ecc…
I ricercatori sono partiti da un’informazione ormai condivisa all’interno della comunità scientifica: gli alimenti che consumiamo regolano la composizione del microbiota intestinale . E hanno dunque voluto valutare se la riduzione dei livelli infiammatori portata avanti attraverso la dieta fosse in grado di condizionare l’insorgenza o il decorso di una malattia autoimmune qual è il diabete di tipo 1.
I risultati della ricerca hanno confermato che «alcuni metaboliti possono comportarsi come farmaci – ha spiegato Charles Mackay, immunologo della Monash University, tra gli autori della pubblicazione -.
Viviamo nell’epoca in cui potremmo scoprire che alcuni composti normalmente assunti con la dieta sono in realtà efficaci quanto un farmaco». Secondo gli autori della ricerca, i benefici osservati potrebbero andare oltre il diabete di tipo 1 e riguardare anche le malattie infiammatorie croniche intestinali l’asma il diabete di tipo 2 e le allergie alimentari ,
Per Antonio Gasbarrini, responsabile dell’unità operativa complessa di medicina interna e gastroenterologia del Policlinico universitario Gemelli di Roma, «tutto parte dal nostro intestino, a cui dovremmo guardare con lo stesso interesse riposto nei confronti del cervello». L’affermazione, per molti azzardata, in realtà non lo è, se si guarda al microbiota – l’insieme dei miliardi di microrganismi che abitano l’intestino umano – anche alla ricerca di potenziali fattori scatenanti la depressione. Tra il tubo digerente e il cervello, dunque, ci sarebbe un canale di comunicazione fatto di segnali chimici in grado di modulare alcuni comportamenti.
Asse Intestino – cervello
L’ipotesi, non del tutto nuova, è portata avanti dai ricercatori dei dipartimenti di medicina e farmabiotica alimentare dell’università di Hamilton, in Canada. In una ricerca pubblicata su Neurogastroenterology & Motility, infatti, gli scienziati hanno confermato l’esistenza di una fitta rete di scambi, in entrambe le direzioni, tra l’intestino e il cervello, in grado di modulare il rilascio di citochine e neurotrasmettitori che influenzano i comportamenti dell’uomo. Se le evidenze degli effetti della comunicazione in senso opposto erano già chiari – non mancano i riscontri di pazienti con disturbi psichiatrici che avvertono sintomi a livello dell’apparato digerente -, più interessanti e da esplorare sono gli effetti causati dall’intestino sul cervello.
La ricerca
Nei pazienti depressi spesso si riscontrano disordini dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con un’elevata concentrazione nel sangue del cortisolo (ormone dello stress) e di alcune citochine infiammatorie, ritenute marker attendibili della malattia. Partendo da queste certezze, i ricercatori hanno indotto una lesione bilaterale del bulbo olfattivo nei topi, per misurare l’attività del colon e dell’asse ipotalamo-ipofisario: prima e dopo l’intervento. Si è così notato che i topi su cui si era intervenuti, a differenza del gruppo di controllo, avevano un’elevata concentrazione dell’ormone Crh – fattore di rilascio della corticotropina, abbondante in condizioni di stress – in circolo, associata a un’aumentata motilità intestinale e a un alterato profilo microbico nel tubo digerente. «Questi risultati rappresentano una base tramite cui collegare le manifestazioni comportamentali alla sindrome del colon irritabile – hanno spiegato gli autori della pubblicazione -. Sebbene nessuno abbia ancora indagato come sia composta la flora intestinale di un paziente depresso, in molti studi oltre il 50% di chi soffre di disturbi del tratto digerente ha già ricevuto anche una diagnosi psichiatrica».
L’Imput parte dall’intestino?
Sebbene la maggior parte delle ricerche sui possibili campi d’azione della flora intestinale siano ancora compiuti sui topi, non mancano le evidenze che lasciano presagire un ruolo da parte dei batteri intestinali sul comportamento. L’ultimo riscontro è arrivato da uno studio pubblicato su Molecular Psychiatry, che ha evidenziato come topi sterili (privati della flora batterica intestinale) evitassero di socializzare ed entrare in ambienti nuovi rispetto a quelli fino a quel momento frequentati. Un insieme di dati che lascia la porta aperta a interessanti applicazioni terapeutiche: tra cui l’uso di antibiotici e probiotici per la cura dei disturbi psichiatrici.
Fabio Di Todaro