“Buongiorno, dottò, siete vui?” “Chi cerca? Prego signora” rispondo io al telefono. “Dottò, so’ a paziente vostra “pinco pallino, v’arricurdate e me?” Insiste lei. “Prego signora. Mi dica”, rispondo io nuovamente. “Dottò, avite capite chi so’?”: “Prego signora mi dica”, sollecito io una terza volta, non avendo identificato chi fosse la signora al telefono e avendo invece intuito che non fosse… un’aquila. “Dottò ve vulevo dicere che da circa ‘nu mese tengo i “raganelli”. “Che cosa tiene signora?” “I raganelli, i micilli ‘mpietto”. Al che io: “I micilli? Signora, tenete i gattini in braccio?” “No ma che avite capito dottò, i raganielli e i micille me vengono ‘mpietto. A dicere o vero me vene ‘nu prurito ‘nganna (in gola) e i micille ‘mpietto così come quanno so venuta da vui l’ultima vota”. “E quando è statao, signora?” chiedo. “E nun me ricorde se duie o tre anni fa”. “Abbia bontà, signora, lei vuole che io mi ricordi dopo due o tre anni che cosa aveva e cosa le ho consigliato di fare come cura? Le consiglio di venire allo studio per una visita e cercherò di aiutarla”. “Ma come, pe’ mò nun me putite dare niente? E vabbè, allora vengo allo studio vostro”.
Questa è solo una delle tante telefonate che mi arrivano da pazienti che ho visitato mesi o anni prima. Alcuni chiamano senza rendersi conto che un medico non può identificare correttamente per telefono il tipo di patologia di una persona, e anzi si esporrebbe al rischio di errori, magari anche clamorosi. In una patologia cronica come quella respiratoria cosiddetta “ostruttiva”, ad esempio, quando ci sono fischi e sibili respiratori con tosse e affanno, è fondamentale praticare controlli medici periodici, almeno ogni tre-quattro mesi, per prevenire che possa evolvere negativamente verso l’enfisema o – purtroppo – addirittura verso un cancro polmonare.
Dopo qualche giorno, comunque, la signora venne al mio studio. Dalla sala d’attesa la si sentiva tossire e parlare a voce alta con altre persone che attendevano di essere visitate e appena entrata – con il fiatone e tossendo, e tanto di ampio fazzoletto sulla bocca – la signora mi porse un “dossier” costituito da un insieme di ricette mie.
Dall’esame dell’incartamento capii che in precedenza la paziente era venuta ogni 3-4 mesi; fino a che, forse per la crisi economica, aveva di colpo assai diradato i controlli. “Come mi devo mettere?” chiese come d’abitudine: pur non essendo la prima volta che veniva a farsi visitare, la signora anche in passato domandava sempre istruzioni sul come dovesse disporsi sul lettino. “Deve sedersi scoprendo il torace” risposi come sempre. E lei, come mi aspettavo: ”Mi devo proprio togliere tutto?”. “Signora mia, perché mi chiede sempre la stessa cosa? Se è venuta da uno pneumologo sarà per sapere se il suo apparato respiratorio funziona bene”. Al che lei, di norma e anche quella volta, pronunciò il fatidico “Allora mi scopro le spalle”. Consideravo quella “battuta” per metà espressione del pudore della paziente e per metà quasi un omaggio al fatto che lo pneumologo – che anni fa era di frequente definito tisiologo, poiché la tbc era la principale malattia polmonare – era detto proprio “Medico delle spalle”.
Nell’immaginario popolare, in pratica, avrebbe dovuto limitarsi ad auscultare la parte posteriore del torace. Devo dire, per quanto possa sembrare strano o assurdo, che mi è capitato di osservare come anche ai giorni nostri qualche collega si limiti a visitare quasi esclusivamente le spalle, senza porre il fonendoscopio nella parte anteriore; e quindi senza auscultare non solo il cuore ma, nel contesto pneumologico, il lobo medio del polmone destro, che è tutto anteriore.
Se ci dovesse essere una polmonite in quella sede, badate, non si potrebbe identificarla con una visita che escluda l’auscultazione anteriore del torace. Frattanto, la signora si era disposta alla men peggio sul lettino: era evidente che faceva fatica a tenere alzati i vari strati di vestiti. Le dissi: “Signora ma lei deve stare comoda, io devo sentire come respira senza troppi ostacoli”. Pregai sua figlia, che nel frattempo continuava ad armeggiare con il suo telefonino ridendo ai messaggi che riceveva e senza interessarsi minimamente alla madre, di aiutarla. Dopo una lunga operazione di denudamento la signora era pronta. “La vedo più in carne” osservai, ottenendo quale risposta un disarmante: “Prufesso’, io avevo perso qualche chilo: solo che poi ho pensato che forse tenevo un tumore che mi faceva dimagrire e mi sono messa a mangiare un’altra volta e mi sono ingrassata più di prima”. “Mi dia un dito per la pulsossimetria, le dissi per misurarle l’ossigeno nel sangue”.
Quando la mano mi fu porta, però, dovetti costatare come la signora sfoggiasse uno spesso strato di smalto su ogni dito. Una colata di smalto che sarebbe stata impossibile anche solo da scalfire con l’acetone. E la signora, in ogni caso, si sarebbe opposta: “U mamma mia, disse, e come faccio a levarne anche a una sola unghia? Le ho fatte proprio ieri, le mani, e mi è costato un sacco di soldi”.
Era chiaro come la paziente, come tante altre prima di lei, avesse dimenticato che lo pneumologo ha necessità di misurare la saturazione di ossigeno nel sangue; e che questo lo si fa appunto con l’apparecchietto che si applica all’unghia del dito indice della mano. Passai oltre e, sinceratomi che la signora fosse seduta per bene, le chiesi di dire trentatré.”Lo devo dicere per forza, prufesso’? Sa, mi fa ridere” ”Faccia la brava”, la incalzai, mentre passavo alla percussione del torace. Nonostante la ciccia, l’esame mise in evidenza alle basi polmonari un suono di tamburo tipico dell’enfisema polmonare.