La sindrome dell’armadillo, la malattia rara che non esiste ma che spiega le patologie surrenali

Avete mai sentito parlare della ‘sindrome dell’armadillo’? Probabilmente no, perché è una malattia ‘rara’ che nella realtà con ogni probabilità non esiste.

In effetti, questa condizione non è altro che la lungimirante invenzione  di un gruppo di ricercatori dell’Università di Montreal (CRCHUM), che l’ha prodotta in laboratorio su un modello murino ‘cancellando’ dal DNA degli animali l’espressione di un gene particolare, detto ARMC5 (‘Armadillo repeat containing 5’, da qui il nome della sindrome), il quale codifica per una proteina citosolica senza attività enzimatica.

Perché produrre dunque una malattia artificiale se poi non è applicabile all’uomo?

Per il semplice motivo che potrebbe dare preziose informazioni per il trattamento e la prevenzione di una serie di patologie che purtroppo esistono veramente, come, ad esempio, un tipo particolare di  sindrome di Cushing  o l’iperplasia macronodulare dei surreni, che ha una prevalenza nella popolazione generale di 1 caso su 1 milione e colpisce le ghiandole surrenali. Chi ne è affetto sviluppa noduli multipli (tumori benigni di oltre 1 cm di diametro) a livello della corticale dei surreni, oltre che un’ipersecrezione di cortisolo, che causa obesità, ipertensione, diabete, depressione e un aumentato rischio di mortalità cardiovascolare. Solitamente, la patologia ha una componente di ereditarietà familiare, e, a seconda dei casi, può essere trattata con i farmaci o con l’asportazione chirurgica dei tumori surrenalici.

“Qualche anno fa – ricorda André Lacroix, endocrinologo ed esperto della malattia di Cushing presso il CRCHUM – abbiamo studiato delle famiglie brasiliane e franco-canadesi affette da questo tipo di iperplasia surrenalica. In questo modo siamo riusciti a scoprire che alcuni di questi pazienti erano portatori di una mutazione del gene ARMC5. Oggi sappiamo che il 25-50% dei pazienti affetti da questa patologia rara è portatore di una mutazione del gene ARMC5; è quindi possibile andare a ricercare la presenza di questa mutazione anche in altri membri della stessa famiglia per diagnosticare precocemente la sindrome di Cushing. Peraltro, questo gene è espresso non solo a livello dei surreni, ma può anche avere un impatto su sistemi come quello immunitario”.

Nello specifico, i ricercatori canadesi – che hanno pubblicato il loro studio su Nature Communicationssi sono messi a studiare, per 10 anni, i 30mila geni che costituiscono il genoma del topo, fino a isolarne all’incirca una trentina, quelli cioè che risultavano più rapidi ad attivarsi durante una risposta immunitaria. Per capire il loro corretto funzionamento, i ricercatori li hanno inattivati uno alla volta con la tecnica del ‘knock-out’, privandoli quindi del gene ARMC5. Hanno così scoperto che circa la metà dei topi sottoposti al ‘knock-out’ di questo specifico gene andava incontro alla morte durante lo sviluppo embrionario, mentre quelli che riuscivano a sopravvivere restavano di dimensioni inferiori al normale, con un sistema immunitario indebolito e dunque più esposto al rischio di infezioni.

Ma non è finita qui: con il passare del tempo, le ghiandole surrenali dei topi sopravvissuti aumentavano di volume e i livelli di cortisone presente nel sangue si elevavano sensibilmente, in maniera simile a quanto accade nei pazienti affetti da sindrome di Cushing. Inoltre, questi topi presentavano ipertensione arteriosa e code ‘ripiegate’, indice di un’alterazione dello sviluppo del midollo spinale, equivalente nell’uomo alla spina bifida.

Il futuro della ricerca ora è quello di arrivare ad un’applicazione umana: si studierà dunque la ‘sindrome dell’armadillo’ sui pazienti portatori dell’iperplasia macronodulare bilaterale dei reni per identificare, già in fase iniziale, le tipiche manifestazioni della malattia o le alterazioni a carico del sistema immunitario, nervoso e cardiovascolare. L’idea alla base dello studio e quella di riuscire ad individuare le molecole con cui interagisce il gene ARMC5, che potrebbero rappresentare futuri target terapeutici.

 

Fonte: Osservatorio malattie rare

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